2007-2017, le differenze tra il Lingotto veltroniano e quello renziano


Il partito aperto ai giovani che indicava Veltroni non è ancora il partito dei giovani, così Renzi ammette di essere stato messo in difficoltà dalla serie di proposte di Federico, classe 2000. Ciro Alessio Pecoraro per la Community de L'Unità.

Era il 2007, un giovane senatore afroamericano dell’Illinois annunciava la sua candidatura alle primarie del Partito Democratico per le elezioni Presidenziali, Simone Cristicchi vinceva a Sanremo, il Milan si aggiudicava la sua settima Champions League. Il 27 giugno, il sindaco di Roma Walter Veltroni dal Lingotto di Torino lancia la sua candidatura a segretario del neonato Partito Democratico con un discorso che si apre con un impegno chiaro “Fare un’Italia nuova”. Nelle quasi due ore di intervento Veltroni snocciola il suo manifesto programmatico: “Unire ciò che oggi viene contrapposto, nord e sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi. Ridare speranza ai ragazzi quelli convinti che il futuro faccia paura” e una sfida chiara “ai conservatorismi di destra e di sinistra che paralizzano il Paese”.

Ne esce il suo Pd: “Una forza libera dagli ideologismi, un partito del tutto nuovo, per una sinistra che è apparsa vecchia e conservatrice. Un partito aperto, aperto ai giovani, un partito dove ognuno entra con la sua identità e nessuno può chiedergli di rinunciarvi”.

Dieci anni dopo quel giovane senatore dopo due mandati da Presidente degli Stati Uniti ha lasciato la Casa Bianca a Donald Trump, a Sanremo ha stravinto Gabbani con Occidentali’s Karma, la Juventus si appresta a vincere il suo sesto scudetto di fila. Matteo Renzi dopo aver vinto il congresso nel 2013 e passato mille giorni a Palazzo Chigi lancia la sua (ri)candidatura alla guida del Pd proprio dal Lingotto.

Un richiamo netto a quella pagina di storia ma che con quella pagina ha pochissimi tratti in comune, in primo luogo perché in questi dieci anni è cambiato tutto. Renzi nei suoi due interventi (il primo il venerdì sera e il secondo a conclusione della tre giorni) rilancia con convinzione il suo refrain “la politica è bella” e si rivolge più che agli italiani soprattutto al popolo del Partito Democratico quasi come a volerne accrescere il senso di appartenenza “questo è un popolo che ci crede che si è mischiato che ha dei valori e che non si lascia distruggere da niente e da nessuno”.

Il senso del Lingotto renziano non è proporre ricette ma è quello di discutere, dialogare, anche dividersi se serve per dibattere restituendo il senso alla parola compagno. Un Renzi che torna spesso sulla scissione, a differenza di Veltroni che dedicò solo un breve passaggio a chi non aveva creduto nel Pd, “c’è diversità tra essere eredi e reduci”, “essere di sinistra non significa solamente inseguire i totem del passato. . Non è l’amarcord di una cosa che non c’è più a difendere i diritti degli ultimi”.

In questi passaggi l’ex premier delinea il perimetro della nuova sinistra e lo fa con maggiore intensità rispetto ad un Veltroni più narratore al quale in un ipotetico “botta e risposta” temporale risponde sui risultati raggiunti (dalla sfida dello sviluppo sostenibile, alla lotta all’evasione fiscale, ai diritti) ma allarga lo sguardo. Renzi è figlio della generazione Erasmus e Il Pd che ha in mente guarda a Bruxelles. Ecco la proposta più netta che esce dal Lingotto: eleggere con le primarie il prossimo candidato presidente della commissione europea del PSE.

Veltroni dieci anni fa diceva “parlo da italiano” e chiedeva di voltare pagina. Renzi parla da leader di un popolo, quello Dem, appassionato e curioso con la consapevolezza che dopo il risultato del 4 dicembre il percorso di innovazione istituzionale (chiesto con forza anche 10 anni fa) è più debole e assai incerto.

Renzi si sofferma (tanto) sul tema lavoro, rivendicando i risultati del Jobs Act, ma rimane timido su due grosse questioni: quel patto generazionale che Veltroni indicava come priorità e ambiva a realizzare in 10 anni e sul tema dell’immigrazione, tema assai sentito anche dal popolo della sinistra. Il partito aperto ai giovani che indicava Veltroni non è ancora il partito dei giovani, così Renzi ammette di essere stato messo in difficoltà dalla serie di proposte di Federico, classe 2000. Ma la strada indicata dall’ex premier e segretario è chiara “il partito dei quarantenni e dei millennials, e di chi ha voglia di rinnamorarsi della politica”. Insomma il partito ne leggero, ne pesante, ma pensante e aperto rimane una questione centrale, non ci sono però proposte sul come fare.

Al Veltroni solitario, ha risposto un Renzi collettivo che ha diviso il palco con pezzi differenti di Italia e che rottama il “noi” marchio di fabbrica veltroniano: “per dire noi c’è bisogno di dire io, il noi senza l’io non va da nessuna parte”. Un Pd, quello della mozione #incammino, che si candida ad essere “Una forza tranquilla”: “c’è chi sa andare soltanto contro, chi sa solo distruggere l’avversario, noi siamo altro, siamo altrove”. Renzi sdogana, in uno dei templi della sinistra, parole come identità e patriottismo, ma non sferra nessun attacco alla correnti (sempre nel mirino di Veltroni) ma usa toni decisi contro chi ha fatto fallire l’Ulivo e oggi ne rivendica la paternità. No Renzi non sarà il nuovo Prodi. Veltroni e l’ex Sindaco di Firenze sono diversi anche per le citazioni, il primo citò De Gasperi, Vittorio Foa, Carlo Azeglio Ciampi, il secondo richiama Roosvelt, Bertrand Delanoë, George Orwell, Brunori Sas. Un solo punto in comune Olof Palme e la sua lotta alla povertà.

Un Renzi poco veltroniano, del resto non lo è mai stato, ma molto blairiano, perché nonostante lo scenario post referendum assai incerto, il Governo Gentiloni in carica con ogni probabilità fino al 2018, l’obiettivo di Renzi era e rimane solo uno: quello di cambiare il Paese.

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