Iraq dieci anni dopo. Ricordo di un brutto ricordo

9 aprile 2003: l'abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad
segna la fine del regime



Dieci anni fa questi erano  giorni che precedevano una guerra.

Fallite le ultime mediazioni, spazzata via la diplomazia, la Casa Bianca di George W. Bush aveva dato l’ordine d’attacco, mascherato dietro l’apparenza di un ultimatum che Saddam Hussein non avrebbe rispettato. La parola passava alle armi, alla guerra super tecnologica che il Pentagono preparava da tempo

Lo racconta Federica Mogherini per il quotidiano online Europa.

Dieci anni fa si apriva una delle pagine più brutte della politica internazionale, la guerra in Iraq. Una guerra sbagliata, sotto tutti i punti di vista: politico, perché rompeva il consenso che gli attentati dell’11 settembre avevano creato attorno agli Stati Uniti dividendo drammaticamente la comunità internazionale e distogliendola dalle vere priorità comuni globali; giuridico, perché faceva carta straccia del pur fragile assetto di diritto internazionale su cui il mondo può contare; economico, perché disperdeva risorse che come si è poi visto sarebbe stato più intelligente investire in ben altro modo. Ma soprattutto, quella guerra fu un enorme errore dal punto di vista culturale, perché introdusse due falsi miti, poi rivelatisi estremamente difficili da smantellare: da una parte, l’illusione di poter (e l’arroganza di dover) “esportare la democrazia” con le armi; dall'altra, l’assunto che ci fossero due “civiltà” contrapposte ed in conflitto, mescolando religione, politica, storia e cultura in un mix pericolosissimo di pregiudizi che non hanno fatto altro che autoperpetuarsi.

Oggi, dieci anni dopo, è evidente la distanza dell’America di oggi dall’America di allora: tra lo scontro di civiltà delpresidente texano e il viaggio in Medio Oriente del presidente che di secondo nome fa Hussein, ci sono due visioni del mondo contrapposte. Ed è proprio sull’affermarsi di una certa idea di mondo, e di relazioni tra le diverse parti del mondo, che la strada da percorrere è ancora lunga – ed abbiamo tutti la nostra parte di responsabilità. Perché nel mezzo, in questi lunghi e densi dieci anni, siamo stati lontani, distratti, quasi indifferenti a quel che succede “lontano da noi”, a partire dal complicatissimo scenario iracheno – come se, risolto il tema del ritiro delle truppe italiane dall’Iraq per merito di un governo che fu in questo coerente e attento, la cosa non ci riguardasse più. Ed invece c’era, e credo ci sia ancora, proprio nel nostro paese, un capitale potenziale enorme di partecipazione attenta e attiva su questi temi. Non per caso, proprio in Italia, nel 2003 organizzammo la più grande delle manifestazioni che nel mondo si tennero contro l’avvio della guerra in Iraq. Non bastò. Né a fermare la guerra, né a tenere alta e viva l’attenzione della nostra opinione pubblica a quel che succedeva lì.

Di quei giorni, tra la manifestazione del 15 febbraio e quel triste 20 marzo del 2003, io ricordo il senso di impotenza e di sconfitta, nel vedere come quel meraviglioso ed imponente fiume di partecipazione che sfociò nelle manifestazioni globali contro la guerra non riusciva ad ottenere alcun risultato. Il New York Times definì il movimento contro la guerra in Iraq “la seconda super-potenza del mondo”, ma evidentemente non eravamo abbastanza potenti da fermare quella follia. Da quel senso di frustrazione, di delusione, di impotenza, nacque molto del disimpegno e del distacco che poi, in anni successivi, si è via via trasformato anche in un sentimento diffuso di sfiducia nell’impegno politico e nel lavoro delle istituzioni.

Le cose, tutte le cose, hanno radici lontane. Nel 20 marzo del 2003 si trovano i semi di una disillusione, di una frustrazione, che dura ancora, sotto altre forme. 

Forse oggi, dieci anni dopo, il tempo è maturo per seminare.

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