Vent'anni e sentirli tutti


La memoria si racconta come qualcosa di fragile, volatile.

Eppure quel giorno di vent'anni fa, per chi c'era,
diventò immediatamente indimenticabile.

Palermo veniva da un decennio dipinto in rosso, gli omicidi si consumavano spesso ad angoli delle strade dove eri solito passare. Qualcuno descrisse Palermo come Beirut, e forse era anche peggio. Fotografi come Letizia Battaglia correvano da una parte all'altra della città per trasmettere al mondo le immagini di quell'efferatezza senza eguali e i cronisti cercavano di raccontare ciò che si stava consumando nella guerra di mafia tra i corleonesi e i Palermitani, le fazioni in lotta nella guerra per il predominio della città e di tutti i traffici che giravano intorno ad essa. 

Di Mafia si parlava tanto, ed era inevitabile. Ma in quegli anni stava crescendo anche il sentimento di ribellione di tutti quei cittadini onesti che cominciavano a comprendere che Cosa Nostra non era parte del paesaggio, e come tale elemento inamovibile con la quale convivere. Se fino ad allora a mettere in discussione i mafiosi di turno erano stati singoli cittadini, che spesso pagavano con la vita quella ribellione, in quegli anni ci si rese conto che soltanto un movimento di opinione che coinvolgesse tutta la cittadinanza sarebbe stato in grado di cambiare lo stato delle cose. 

Un'ispirazione profonda che proveniva dal pool Antimafia, guidato da Antonino Caponnetto, che in quegli anni mostrava, con l'abnegazione al risultato preposto, che per abbattere la Mafia esistevano degli strumenti e dei metodi con i quali era necessario agire, e che già dal Maxi Processo del 1986 dimostravano di poter dare i primi frutti.

Per questo, il Ventitrè Maggio, fu indimenticabile.

Io ricordo esattamente dov'ero, cosa facevo in quell'istante. Allora vivevo vicino all'ospedale in cui portarono tutte le vittime di quell'attentato. Ricordo le autoambulanze che urlavano per le strade, gli elicotteri in cielo. 

Lo ricordano tutti quel caldo pomeriggio in un sabato di maggio, a Palermo. Tutti ricordano la distanza da quell'altro boato, soltanto due mesi dopo, in Via D'Amelio. Ricordano i lenzuoli bianchi appesi alle finestre, le fiaccolate per le strade del centro, le urla fuori dalla chiesa di San Domenico, il giorno del funerale.

C'è chi ha persino deciso di raccoglierle quelle storie che da prospettive diverse raccontano quel momento. Storie come questa, che ho letto qualche giorno fa, piccole, ma essenziali per ricostruire il mosaico dei ricordi di quei giorni. 

Io del 23 Maggio ’92 non ho memoria.

Avevo otto anni e alle 17,58 stavo giocando con i soldatini.
Niente botto, niente sirene e manco l’ edizione straordinaria del tiggì.
Niente di niente, pur sforzandomi non ricordo niente.

Il 25 Maggio del ’92 invece me lo ricordo benissimo.
Seguivo di nascosto la diretta del telegiornale che mia madre in quel momento non voleva che vedessi.
Io entravo nel salone e lei mi buttava fuori e ricordo che, con i soldatini in mano, mi chiedevo perché io non dovessi vedere quella trasmissione.
Poi ho capito.

Mentre mia madre gridava e cercava di non farmi entrare, dalla porta che con forza si stava per chiudere sulla mia faccia vidi mio padre seduto sul divano che piangeva come un bambino.
Peggio di me quando litigavo con mio fratello.

Quel giorno non ricordo se fossi rimasto più colpito nel vedere un uomo che non piange mai, piangere o nel sentire quella donna che gridava dalla televisione.
Ricordo una donna vicino l’ambone dentro la Chiesa dove si svolgeva il funerale che piangeva e che parlava allo stesso tempo e considerando l’aumentare delle lacrime di mio padre doveva dire delle cose per forza commoventi.
Fino a quel momento mio padre non aveva mai pianto davanti a me, ma quei morti assieme a Falcone erano suoi colleghi, poliziotti come lui, padri di famiglia e bravi lavoratori.
A casa mia c’era un’aria pesante. Meglio posare i soldatini.

Di quel giorno non ricordo più niente.
Nei giorni a seguire ho fatto tante domande.
Mi chiedevo se mio padre conoscesse gli uomini della scorta, che significasse mafia, perché c’erano i lenzuoli bianchi appesi ai balconi e perché tutti dicevano che era sicuro che prima o poi l’avrebbero ammazzato.
Ma la domanda che ricordo essermi fatto più volte è perché mai un idiota che sapeva che sarebbe stato ucciso non è scappato.
Nella logica dei soldatini, quando giocavo con mio fratello, appena cadeva la barricata supersonica che proteggeva il soldato di turno non bisognava pensarci più di tanto, bisognava scappare e sperare che non ti colpissero. Sarà stata la mente deviata a causa dei soldatini ma non riuscivo a capacitarmi del perché Falcone non fosse scappato a mettersi al sicuro.

Inutile dire che la risposta è arrivata molto tempo dopo.
Semplicemente c’è chi affronta e c’è chi scappa.
C’è chi fa il proprio lavoro fino in fondo e c’è chi “è meglio non rischiare”.
C’è chi ricorda e c’è chi fa finta di niente.
C’è chi resiste e c’è chi si nasconde.
C’è chi ha paura e c’è chi si blocca dalla paura.
Non eroi ma uomini fino all’ultimo.

A 28 anni, dopo 20 anni dalla morte di Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta, penso che mia madre il 25 Maggio del ‘92 volesse semplicemente lasciarmi l’idea che la morte fosse solo un gioco e che il tritolo riguardasse solo i miei soldatini quando saltavano in aria con un BUM!
E forse lo avrei anche preferito.

Tutti ricordano che nulla fu come prima nella coscienza dei Palermitani, che cominciarono ad unirsi e ad agire, come mai avevano fatto prima. Ma questa è un'altra storia, che varrà la pena di essere raccontata. 
Mao

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